La gallina di Maruzza e la zebra di Mohamed


Ho sempre amato il linguaggio dei Malavoglia, nel quale ritrovo quello della mia società contadina. Non è stato difficile da adolescente apprezzare tale innovazione narrativa e cogliere la valenza dell’operazione letteraria e sociale di Verga ( che andava a far emergere realtà inedite ), abituata com’ero al linguaggio di un mondo che procedeva per similitudini, per proverbi in cui si condensavano secolari sapienze e per riferimenti all’universo rurale.

Non ho mai invece amato che il giovane ‘Ntoni fosse un vinto, quasi dovesse essere punito per aver osato aspirare al progresso. Anzi, in tal senso, è questo il ricordo di una delle mie letture adolescenziali più tristi: i giovanissimi, si sa, hanno quella che si chiama “lettura ingenua”, non scientifica. Nel testo il ragazzo cerca se stesso, con il testo egli costruisce anzi se stesso, un’esperienza e una modalità che sarebbe bene conservare da adulti: leggere per e con passione, non solo con scaltriti e retorici strumenti interpretativi.
Un’altra mia grande sofferenza di giovane lettrice? Il finale de Gli indifferenti: quanto mi ha addolorata e indignata la mancanza di reazione dei diversi personaggi! Quanto avrei voluto vederli non-indifferenti! Sarebbe bastato un lieve sforzo per modificare le loro esistenze! Sono, questi, i miracoli di empatia tra lettore e scrittore. E ancora adesso penso con tenerezza al Moravia molto giovane che scrive forse il suo romanzo migliore.

Nonostante i miei dolori o ribellioni di ingenua lettrice, porto dentro di me con affetto particolare proprio una creatura di Verga.
Maruzza la Longa non diceva nulla, com’era giusto, ma non poteva stare ferma un momento, e andava sempre di qua e di là, per la casa e pel cortile, che pareva una gallina quando sta per fare l’uovo.
Maruzza mi è sempre sembrata raffigurazione sublime del dolore dei poveri e di una donna che perde il suo uomo: il marito è per il mare mentre la natura si sta scatenando furiosa ( mare amaro, mormora padron ‘Ntoni ) e Bastianazzo non ritornerà dal viaggio. …pareva una gallina“, dice Verga e non mi è costata nessuna fatica cogliere l’intensità e l’evidenza espressiva della similitudine: quante volte sul far della sera ho visto mia madre sull’aia esclamare A masù a masù!, accompagnando le parole con il battito delle mani! Le galline a quell’ordine tornavano nel pollaio, per qualcuna c’era bisogno di un invito più energico. Ho l’impressione di esserci ancora sulla vecchia aia, di rivedere i colori dell’imbrunire, i movimenti eleganti di mia madre in quello spazio, la sua figura snella, di udire la sua voce. Sedevo su un ceppo di pietra e aspettavo che le benedette galline, che spesso mi divertivo a spaventare e far correre qua e là, buone buone rientrassero. Di esse rammento i diversi e bei colori delle penne, ne ricordo invece qualcuna un po’ spennacchiata sul collo, è vivida in me l’immagine della porticina nella quale ad una ad una si infilavano.
Da ragazza ho amato anche la Lucia manzoniana che aveva imparato a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore, io che indossavo allora la minigonna ma non avevo difficoltà a sentire l’intensità dell’amore della giovane per Renzo.
Questi sono mondi umili che apparentemente non conoscono il linguaggio delle emozioni e sono le cose a raccontare i moti del loro cuore.

Sono dunque abituata a espressioni contadine del tipo è nu giuvane forte cuomu na cerza, quercia, o all’omerica Aurora dalle dita di rosa. Negli ultimi anni, Facebook mi ha inoltre permesso di entrare in relazione con altri mondi ed esperienze. E fa parte dei miei amici virtuali Mohamed Ba, un mediatore culturale senegalese che vive in Italia e percorre il nostro paese con un’azione incessante e paziente che tende all’incontro tra culture differenti e che in qualche caso ha esposto l’uomo a pericoli gravi.
Nel leggere alcuni suoi scritti o delle interviste che gli sono state fatte, mi sono imbattuta in modi di dire a me ignoti. Per indicare le necessità che spingono ad emigrare, Mohamed scrive al suo aggressore: ” Se la scimmia avesse avuto quello che occorreva sugli alberi, mai sarebbe scesa per terra”. Per rendere chiaro quale sia l’approdo emotivo e la complessa identità di chi lascia il proprio paese e abita altrove, spiega: Ma oggi posso affermare di essermi gradevolmente “italianizzato” pur sapendo che il tronco dell’albero può stare in acqua per secoli ma non diventa mai un coccodrilloLo stesso in fondo affermano i miei compaesani che negli anni Cinquanta o Settanta hanno abbandonato Cortale ed i suoi suoni e ritmi e sono arrivati in Lombardia o Germania.
E nel parlare ancora di identità ecco cosa sostiene il mio nuovo amico, Mohamed: Credo che un popolo senza memoria è come una zebra senza strisce. E ancora: Sono tra coloro che hanno lasciato tutto sulla strada della speranza senza dimenticare nulla. Questo confessano i miei parenti emigrati nelle Americhe, questo asserisce Gianfranco benché –  partito da Cortale – passeggi attraverso gli splendidi boschi lombardi, questo urla Francesco che conduce l’esistenza nella bella Torino ed è entrato in contatto con tante importanti realtà estere e ciononostante invidia quelli come me, che vivo attaccata a Cortale soprattutto per evitare la devastante avventura dell’emigrazione nella mia famiglia arcinota.

Gli uomini dunque si somigliano tanto, anche se si fanno la guerra. I meccanismi del dolore sono poi gli stessi, sia che si esprimano attraverso lo struggente movimento della gallina sia che – come in Mohamed – si faccia riferimento al bisogno della scimmia o alla natura dell’albero diverso dal coccodrillo o al popolo smemorato paragonato alla zebra senza strisce. La verità è che parla di viaggi della speranza, Mohamed, e noi italiani conosciamo bene tali esodi.

La sua scrittura mi ha fatto pensare a mondi nuovi rispetto al mio. Ma tutti gli uomini che da luoghi lontani arrivano da noi ci giungono con un patrimonio interiore, con una ricchezza culturale peculiare e nello stesso tempo alla nostra uguale. Io credo sia interessante incontrare questi universi, entrarci non da biechi colonizzatori o – quando siamo buoni – da turisti occidentali che magari ci facciamo prendere dal mal d’Africa, dalla nostalgia per la nostra Africa e tale nostalgia cantiamo compiaciuti. Chissà se però la nostra Africa è la loro, quella delle genti che popolano tale terra!
E si scoprono aspetti affascinanti pure della propria identità, se si tenta di liberarsi dalle paure e si osano percorsi inediti. A volte chi viene da un differente paese o sogna di raggiungere l’Italia pare conoscerci meglio di quanto noi riusciamo a fare. O pare possedere memoria di cose che noi abbiamo ormai scordato.

Li avrei visti quegli italiani, “uomini-attori” la cui lingua è una successione di egloghe. Li avrei presto potuti ammirare nello sposare, come in un’operetta, il gesto alla parola, dice ancora il mio amico di Facebook, Mohamed Ba, rivelando noi stessi a noi stessi. E sembra che egli, che le vastità del deserto ha guardato, ed io, che mi son mossa quasi sempre in uno spazio di cinquanta chilometri, da ragazzi abbiamo posato gli occhi sui medesimi libri. E’ la sua zebra che mi ha sollecitata a ripensare alla mia Maruzza, che tragicamente si muoveva senza posa come una dolorante gallina sull’aia.

© Margherita Faga