Funerali oggi, funerali nel V secolo a.C.


Lisia era nato ad Atene, ma il padre Cefalo – ricco proprietario di una fabbrica di scudi presso il Pireo – veniva da Siracusa e faceva perciò parte dei meteci, cioè stranieri di libera condizione che non esercitavano tuttavia i diritti politici. La cittadinanza era per loro un raro privilegio.

Sotto la tirannide dei Trenta, si assiste nel 404 a.C. a una feroce repressione dei meteci, soprattutto dei più facoltosi. Ed anche Lisia, per le sue ricchezze, per la condizione di non-cittadino e per le simpatie democratiche, diviene vittima del governo oligarchico. Il fratello Polemarco è arrestato e condannato a morte, Lisia è costretto alla fuga.

Nell’orazione Contro Eratostene del 403 Lisia in tribunale pronuncia l’accusa contro il regime, facendo emergere la tragedia non con commenti ma attraverso la crudeltà dei fatti stessi. A me queste sue pagine hanno sempre ricordato Natalia Ginzburg che in Lessico famigliare scrive in maniera asciutta, come se non la riguardasse, della morte del marito. Leone dirigeva un giornale clandestino ed era sempre fuori di casa. Lo arrestarono, venti giorno dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più.

Del fratello l’oratore dice: “I Trenta poi resero noto a Polemarco l’ordine da loro di solito dato di bere la cicuta, prima di comunicargli la ragione per la quale doveva morire; tanto egli fu lontano dall’essere processato regolarmente e dal potersi difendere”.

E aggiunge: “E quando morto fu portato via dal carcere, pur avendo noi tre case non permisero che da nessuna si facesse il trasporto funebre, ma – affittata una catapecchia – lì lo esposero. E delle molte vesti che possedevamo nessuna fu concessa per la sepoltura ai parenti che lo chiedevano; ma tra gli amici chi offrì una veste, chi un cuscino, ciascuno quel che poteva dare per la sepoltura”.

Offriamo, oggi, i fiori più profumati e i drappi più preziosi per Alexei Navalny, l’oppositore che non ha avuto i diritti di un uomo libero.

©Margherita Faga

Il dolore dis-umano dei russi. Sostiene Moravia…


Ho sempre guardato ai russi e alla loro storia tribolata attraverso le parole di Moravia, che lessi da ragazza.
Nel capitolo Sterilità del dolore di Un mese in URSS così egli ragionava…

Tutta una letteratura romanzesca e saggistica ha cercato, in anni non tanto lontani, di dimostrare le virtù stimolanti, educative e creative del dolore.

D’altra parte, se è vero, come non è affatto dimostrato, che il dolore sia utile e necessario, la natura si è incaricata già dagli inizi di assicurare all’uomo questa esperienza. Non c’è dunque alcun bisogno che l’uomo aggiunga alla dose naturale del dolore, quella, diciamo così, sociale e civile. In URSS, in questa prima metà del secolo, è avvenuto invece proprio questo; la quantità di dolore a cui, purtroppo, l’uomo non può sottrarsi in alcun modo, anche nelle migliori condizioni, è stata centuplicata dagli avvenimenti storici di quel paese. Basterà ricordare per sommi capi la storia dell’URSS negli ultimi quarant’anni per rendersene conto: rivoluzione nel 1917 e distruzione totale della vecchia classe dirigente; guerra civile e conseguente prima carestia; piano quinquennale, liquidazione dei kulaki e seconda carestia; assassinio di Kirov e gigantesca epurazione; guerra contro gli hitleriani con tutto ciò che comportò di orrendo a causa della volontà di Hitler di fare della Russia una colonia di schiavi; ultimi cinque anni di Stalin, i peggiori, a detta dei russi, di tutto il ventennio dello stalinismo. Tutti questi avvenimenti faranno domani un bellissimo effetto nei libri di storia; si dirà: questo è stato il periodo eroico del popolo russo. Ma nella realtà essi significarono il dolore in forme atroci e intollerabili, dalla morte violenta alla perdita della libertà, dalla paura alla privazione fisica, dalla disperazione alla tortura corporale per milioni e milioni di uomini.

Moravia pubblica Un mese in URSS nel 1958 e qui analizza l’insensibilità prodotta dal dolore quando oltrepassa la misura umana.
Egli afferma che ad un certo grado di intensità gli effetti del dolore si capovolgono e alla sensibilità estrema subentra l’insensibilità, così individualmente come collettivamente. In altri termini, poco dolore forse davvero stimola e inspira; ma troppo provoca, invece, una specie di intossicato torpore, che non soltanto non vivifica in alcun modo, ma anche impedisce di reagire in maniera naturale ai più diversi avvenimenti.

La riflessione dello scrittore viaggiatore mi colpì tanto da ragazza. Eschilo mi diceva che dalla sofferenza nasceva il sapere (non mi ha mai interessato la concezione cristiana del dolore, che ritengo adatta ai martiri), ma ecco Moravia parlare di virtù creativa dell’allegria vitale e insegnarmi che se il patimento è troppo annichilisce. Annichilisce persino interi popoli, rendendoli meno liberi e sempre più incapaci di opporsi.

Parole rimaste impresse in me per sempre, quelle di Moravia. Per come era espressa ed esaminata l’intensità del dolore di un popolo: non si soffre più e non si reagisce quando il travaglio è eccessivo, lo sa bene anche chi ha subito un danno affettivo irrimediabile e indicibile.

Quell’argomentare mi risuona dentro pure adesso e provoca in me la consueta commiserazione verso la Russia, che tuttora appare apatica preda di autocrati dalla politica interna ed estera sciagurata. Di fronte alle fragili figurette che nella neve depongono fiori, violentemente portati via da uomini scuri e incappucciati, e con negli occhi l’afflitta madre di Navalny che non può avere neppure il cadavere del figlio, io penso ancora alla sterilità del dolore così efficacemente indagata da Moravia.

Vediamo una gente costretta ad avere eroi ed eroi della statura di Navalny, il quale, come vittima sacrificale, scientemente si è tempo fa consegnato ai suoi aguzzini.

E in questi giorni davvero la compassione dovrebbe permeare l’intera terra per come in Russia gli uomini vengono privati della vita o sottratti alla naturale libertà, all’esercizio della parola, persino alla religiosa pietas che spinge ad onorare e ricordare chi ci ha lasciati.

Moravia probabilmente ci saprebbe far riflettere, con la sua scrittura asciutta, sensibile e non indifferente e ci saprebbe raccontare di nuovo la pena dell’impotenza di un paese.

Ma lo scrittore terminava il capitolo Sterilità del dolore con una speranza: facciamola nostra, nonostante l’orrore a cui assistiamo.

Oggi per la prima volta, forse, dopo quarant’anni la tempesta del dolore in URSS sembra placarsi. Le giovani generazioni cresciute in tempi più normali potranno forse in un prossimo avvenire sfuggire all’apatia prodotta dal dolore. Tra qualche anno, forse, un sorriso vero non dettato da ragioni ideologiche, il sorriso, cioè, della vita, quell’allegria naturale insomma, a cui allude Leopardi parlando degli uccelli, si riaffaccerà nella vita russa e dunque anche nell’arte.

©Margherita Faga

Giulia. Le altre. Tutte noi.


Tra tutti gli esseri, quanti ce ne sono, dotati di anima e che hanno ragione, noi donne siamo le creature più infelici; noi, le quali bisogna per prima cosa che compriamo uno sposo ad un prezzo eccessivo e che prendiamo un padrone del nostro corpo (…)

E in questo c’è un pericolo grandissimo, se trovarlo malvagio o buono; infatti non sono onorevoli per le donne le separazioni né è possibile ripudiare lo sposo (…)

Un uomo, quando si stanchi di starsene con quelli di casa, uscito fuori libera il cuore dalla noia [andando da un amico o da un coetaneo]; noi invece è necessario che guardiamo ad una sola persona.

Dicono che noi viviamo una vita senza pericoli in casa, mentre essi combattono con la lancia; ma male ragionano; come vorrei stare tre volte presso lo scudo piuttosto che partorire una volta sola.

Nel V secolo a. C. Euripide faceva pronunciare alla sua straordinaria e sapiente creatura, a Medea, un lucido e doloroso discorso sulla condizione femminile. Medea si rivolgeva alle donne di Corinto, ma era una straniera tra i Greci. Come tutte le donne, barbare spesso nel nostro stesso paese.

Oggi, di fronte alla tragedia di Giulia rincorsa nella sua disperata fuga dal ragazzo divenuto – alla maniera di un Giasone qualsiasi – il peggiore degli uomini, quindi raggiunta e uccisa, troppi disquisiscono sul termine patriarcato alla stregua di fini storici e preferiscono incolpare il narcisismo e la fragilità e altre sottigliezze stravaganti.
Rincorsa, raggiunta, uccisa. Da chi è abituato all’uso della forza, all’egemonia, al potere, al sentirsi superiore. Da chi non sopporta la libera scelta femminile. Due ragazzi dal destino tragico, è vero: uno però rincorre e ghermisce la preda come in guerra, mentre la giovane cade vittima non del confronto dialettico ma della brutale vigoria fisica dai maschi posseduta e nell’impari caccia adoperata, per vincere.

Molti sono oggi i censori di Elena, la sorella di Giulia che ha osato criticare le istituzioni e i modelli culturali. E dato parole e gambe per lottare ed energia a una folla immensa di donne, cosa che tanti politici timidi e scrittori e filosofi e analisti non hanno saputo fare.

I discorsi di Elena sono da parecchi rifiutati quasi che Giulia e le altre non fossero state inseguite, raggiunte e uccise da chi ha creduto nel proprio dominio e nel proprio privilegio. Privilegio ereditato, patriarcale, narcisista-patriarcale, chiamatelo nel modo in cui volete dal momento che spesso avete l’ardire di chiamarlo addirittura amore. Basta che non ci inseguiate e non ci uccidiate, quando scegliamo di andare lontano da voi.

Donne di Corinto, (…) quest’evento che mi è piombato addosso inatteso ha distrutto l’anima mia!

©Margherita Faga

Ogni sangue è importante, non solo il nostro


Nella battaglia lungo il Weser, i Germani furono sconfitti dai Romani e tanti vennero uccisi. Parecchi si rifugiavano sugli alberi della foresta, ma i Romani per ludibrium li colpivano con le frecce.
Questo testimonia Tacito, il quale aggiunge magna ea victoria neque cruenta nobis fuit.

Degno di rilievo è dunque solo il sangue romano versato. E Tacito condivide i comportamenti dei romani in guerra, anche le azioni compiute per gioco.
Ed egli non condanna certo le parole del comandante Avito a proposito della sorte degli Ampsivari sedis inopes, popoli senza terra: patienda meliorum imperia, bisogna ubbidire al comando dei migliori, vale a dire dei più forti e potenti.
Lo storico, tuttavia, non ammette che la pace, stabilita dopo la crudele conquista, sia attraversata da brutalità. Essa deve infatti realizzarsi in consensu et caritate.

Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza.

Pure oggi, dobbiamo confessarlo, contano soltanto i nostri morti. E ancora adesso si intende imporre la logica imperialistica: far prevalere i più forti, arbitrariamente sostenendo siano i migliori (i più democratici, i più civili, ecc.).

E nemmeno in tempo di pace, successivamente all’efferata occupazione, costruiamo strade ponti e scuole, come viceversa erano consapevoli si dovesse fare gli antichi romani, che un impeto tennero, ma dopo i quali esistettero le condizioni perché si delineassero le indipendenti nazioni.

Oggi si pretende, al contrario, di mettere a tacere persino l’ONU.

Noi oggi ci vantiamo di essere i migliori e non possediamo neppure l’arte di Tacito, allorché urlando narriamo la nostra boria e le nostre ambizioni.

Questo è, invece, scritto negli Annales sulla fine degli Ampsivari, gens profuga: errore longo hospites, egeni, hostes in alieno quod iuventutis erat caeduntur, imbellis aetas in praedam divisa est.
Nel lungo loro errare estranei, privi di tutto, nemici nell’altrui terra, quanti erano giovani atti alle armi furono uccisi, gli altri furono divisi come preda.

Gli Ampasivari uguali ai profughi e ai vinti di ogni età, anche di quella in cui viviamo.

©Margherita Faga

In compagnia di Fenoglio


Per sopportare gli odierni tempi politici per me molto amari, sto leggendo Fenoglio, partigiano privo di retorica e importante scrittore.
Mi faccio tenere compagnia da questo giovane, che partecipò alla Resistenza contro il fascismo e la raccontò più e più volte, con ripetizioni e variazioni, elemento questo certamente utile a critici e filologi per analizzare lo scrittore e la composizione dell’opera. A me ciò parla invece, semplicemente, dell’uomo Fenoglio e il riandare ad alcuni avvenimenti della propria vita mi dicono in effetti quanto essi gli riempirono cuore e pensiero. È un raccontare magmatico, il suo, che per anni torna e ritorna su nomi e fatti e personaggi e situazioni, che si avvale di digressioni, quasi con tecnica omerica, ma mai – in nessun momento – l’autore rinnega la scelta fatta, mai afferma che i fascisti potrebbero attrarlo. Un partigiano senza retorica, dunque, ma anche senza dubbi negli ideali.

Lo leggo proprio quando imperano i fascisti ex, che si dicono ex, ma non gradiscono che due donne abbiano un figlio, non gradiscono soprattutto che abbiano un figlio due uomini perché ciò comporta che una donna presti l’utero, pratica aborrita dai nuovi governanti che credono di essere i padroni del paese (preferisco la parola paese al termine nazione, grondante di enfasi bellicistica).

Nella foto, Beppe Fenoglio

Proprio quando costoro vogliono occupare tutto lo stato e piegarlo alle loro idee retrive, quando un militare ci vuole insegnare come dovrebbe essere il mondo e ce lo delinea chiuso e razzista e ingiusto, quando ci vogliono spiegare cosa successe a Bologna il 2 agosto alle 10.25, quando invitano le donne ad assumere un comportamento che non provochi lo stupro, quando intendono falsificare la storia calpestando le fonti, io torno alla scelta di chi allora, dopo l’8 settembre, aderì alla Resistenza contro i fascisti. E vinse.

Sto in compagnia di questo scrittore, morto purtroppo appena quarantenne. Atipico. Figlio di un macellaio.
Al piano inferiore della casa il negozio del padre, sopra il giovane scriveva. E sapeva l’inglese, lingua che aveva il sapore della libertà e del progresso, dell’apertura e fiducia nel futuro.
Capitano simili esistenze, insieme comuni ed eccezionali.

E come mi piace – oltre alla memoria della vicenda partigiana – anche l’altro leitmotiv dei suoi scritti, quel particolare verismo e l’attenzione alle dure condizioni di vita della propria terra! Del resto, se non avesse avuto tale interesse per la realtà, Fenoglio non avrebbe parlato neppure della Resistenza.

Vero difatti è Johnny, vero è Milton, tutti veri sono i numerosi giovani partigiani, precise e nello stesso tempo liriche risultano le descrizioni degli amati paesaggi in cui si svolge l’esperienza della Resistenza. Ma quanto è autentica e libera pure la sposa tredicenne con le sue biglie e la cesta nella quale ripone il suo bimbo mentre lei gioca! Quanto un testo come Il paese riesce a coinvolgere con le sue figure dolenti, quanto i poveri delle Langhe somigliano alla folla di poveri del Meridione che ricordo! E nella splendida, sporca, irregolare lingua di Fenoglio io trovo molte consonanze con quella nostra meridionale, dei nostri contadini, quasi l’Italia avesse un’unità più profonda di quella celebrata (o, più spesso, bistrattata). E anche ciò conforta, nei giorni in cui a Pontida si reclama l’autonomia.

Mi fa dunque compagnia la sua maniera di narrare la Resistenza nelle Langhe. Senza retorica, eppure dandole il sapore di un’epopea. Perché fu un’epopea: contro. Contro un avversario. Nei suoi racconti e romanzi c’è una moltitudine di ragazzi (alcuni sui quindici anni: degli incredibili adolescenti) pronti a dare la vita pur di cacciare i fascisti. E le popolazioni non erano ostili a tale sogno e li sostenevano.

Il cuore di Jonny s’apriva e scioglieva, girò tutta l’aia apposta per farsi partecipe e sciente d’ogni uomo. Erano gli uomini che avevano combattuto con lui, che stavano dalla sua parte anziché all’opposta. E lui era uno di loro, gli si era completamente liquefatto dentro il senso umiliante dello stacco di classe. Egli era uno come loro, bello come loro se erano belli, brutto come loro, se brutti. Avevano combattuto con lui, erano nati e vissuti, ognuno con la sua origine, giochi, lavori, vizi, solitudine e sviamenti, per trovarsi insieme a quella battaglia.

Il nostro paese è figlio della vittoria partigiana. Ed io da lì vengo, non dalla storia della Meloni.

La Meloni ha vinto le elezioni (non una guerra!) e ha il diritto di governare, ma non può pensare al posto dei cittadini.

Ha vinto non per soffocare le libertà e felicità nostre. Né per riscrivere la storia, la più antica e la più recente.

E gridi in casa sua, nel Parlamento impari a ragionare ed ascoltare.

©Margherita Faga