E fu festa grande per l’arrivo del frigorifero


Dell’infanzia ho un iniziale ricordo, breve come un lampo arcano: un principio di cui rammento la luce a forfait ( cioè solo per alcune ore e con una lampadina per casa ), i pavimenti in creta e fango ( de taju ) e con buche dove più profonde dove meno, il mangiare la famiglia intera nello stesso piatto, il portare in testa i pidocchi e sul corpo le pulci come fosse naturale, il camminare spesso scalzi, il coabitare con gli animali, qualcuno con l’asino la maggioranza col baco da seta o la chioccia. Anzi, tra le immagini più belle che conservo di quando ero bimba, c’è l’allegra nidiata dei pulcini che seguono per la cucina la chioccia, dopo essere stati in casa covati. Poi, successivo a tutto questo che è come un solo istante e si colloca negli ultimi anni Cinquanta, ricordo il progredire degli anni Sessanta ( che sarebbe continuato nei decenni seguenti ): l’acqua e i servizi igienici nelle dimore, pavimenti rifatti, finestre che spezzavano il buio delle abitazioni, strade rinnovate, qualche soldo da spendere anche grazie all’emigrazione, scolarizzazione aumentata. Ci liberavamo dalla sporcizia e mutava la vita di tutti, specie quella delle donne che si alleggerì di tanti gravami.
E si era appunto nei primi ’60 quel giorno in cui una minuta figura femminile si aggirava per il vicolo e diceva alle amiche: Veniti a la casa mia mu viditi, ca mi accattai chidu chi tene friscu! Nel quartiere era arrivato il primo frigorifero e la signora invitava ad andare a trovarla per vedere quello che mantiene fresco. Cominciava con queste piccole cose il nostro boom.
Ma noi non avevamo un termine per indicare tale elettrodomestico: è vero che basandoci sull’italiano arrivammo a denominarlo ( come facciamo ancora adesso ) frigoriferu, ma ho nella memoria che mia madre lo chiamava u friscu, u friddu, u rigoriferu. Di fronte al nuovo c’era quella che Lucrezio definiva egestas, povertà della lingua, ed ecco che le nostre donne partivano dal noto per determinare l’ignoto, usavano perifrasi, ricorrevano a calchi dall’italiano,”cortalesizzavano” il lessico estraneo, ecc. Tutte operazioni normali negli idiomi, che ogni giorno arricchiscono se stessi e si avvalgono di vari tipi di “prestiti”.
In quell’epoca, tante erano le novità ed era la miseria stessa che s’incrinava e rompeva. Le donne accoglievano ciò con un incanto di bambine, come appunto la signora del frigo, perché era la loro esistenza quotidiana che diveniva magicamente più comoda e più semplice. Mia madre la prima volta che salì sull’automobile di mio fratello restò entusiasta e fu tra coloro che subito, decenni dopo, richiesero l’allaccio al metano ( io invece avevo paura del gas! ). C’era un mondo nuovo che lei sentiva e vedeva delinearsi: questo la incuriosiva ed attraeva e questo voleva per noi figli. Respingeva l’oscuro passato e guardava al futuro.
Le donne, insomma, non erano liete di portare pesi in testa o di lavare i panni al fiume. Verso la fine degli anni Settanta, agli esami, fu chiesto a una ragazza cortalese in quale periodo si era avuta la rivoluzione industriale. “Quando è stata inventata la lavatrice”, rispose rivelando non grandi conoscenze dei processi storici, ma mostrando certo una profonda attenzione per la condizione femminile che spesso segue un percorso “altro” rispetto alla grande storia.
Di sicuro, il muliebre microcosmo che ha popolato la mia infanzia e giovinezza era attirato dalla modernità, non era retrivo. Nella miseria in verità non c’era felicità e non esisteva per essa compiacimento: ne è prova l’immenso fenomeno che ha interessato Cortale, l’emigrazione. Ne è prova che nelle famiglie contadine si volle – a costo di sovrumani sacrifici – far studiare i figli. E del resto, di solito tende a conservare chi sta al riparo del proprio potere.
Pertanto non facciamo parodie della civiltà contadina, per amor del cielo! Parecchio tempo fa un giovane frequentava casa mia, ma mia madre capiva che egli aveva una posizione paternalistica nei confronti del suo mondo. Non le piaceva per niente questo ragazzo e ne rifiutava sdegnosamente le sciocche chiacchiere. Lo sentiva lontano dalle grazie e dalle molte ombre della società  contadina, che non era una suggestiva favola, ma una realtà storica dura.
E quando il rinnovamento entrava nelle proprie vite, si era contenti: altro che la bellezza delle vozze. La felicità fu l’arrivo del thermos, almeno per chi doveva lavorare sotto il sole per ore. Non esiste bellezza nel bisogno, la bellezza si ha quando un uomo si affranca dalla necessità. Era davvero una meraviglia osservare con quanto piacere mia madre, quando le era possibile, si liberava senza rimpianti delle cose vecchie.
Quanto alla signora del nostro primo frigo, aveva un fratello dipendente dello stato: ecco spiegata la possibilità dell’acquisto. Lei, che il grande annuncio fece al vicinato, non aveva invece studiato ed era rimasta una persona semplice, che manteneva la gentilezza e naturalezza nei rapporti, anche se viveva una condizione di privilegio ( questo era allora uno stipendio in famiglia ). Tali atteggiamenti  la mettevano alla pari degli altri. Era tenero e ingenuo, quell’andare casa per casa per annunciare alle amiche la novità, che non venne accolta con invidia: era anzi come se tutte assieme giocassero e si trasmettessero reciprocamente lo stupore di fronte al mutamento. Il vicolo era attraversato da una corale ammirazione e si abbandonava alla gioia del progresso.
La vita cortalese era allora organizzata in maniera che tutto avvenisse in una dimensione comunitaria – parti gestiti da una cerchia di esperte, matrimoni, funerali – sicché anche quel piccolo/grande ingresso nel moderno la mia vicina volle viverlo collettivamente: perché solo così sapeva condurre l’esistenza. E con una festosità fanciullesca diede la notizia e con uguale entusiasmo essa fu dalle altre accolta.
La medesima dimensione collettiva ho trovato in una società da noi lontana, in una descrizione fatta con partecipazione e con un’intima e diresti innata posizione progressista da Mario Calabresi, il quale racconta come sua nonna nel 1955 rinunci alla Fiat Seicento che il marito intenderebbe regalarle ed opti per una lavatrice, che le ridà il tempo di leggere un libro dopo quattordici anni in cui ha cresciuto i figli e si è sobbarcata l’aspro lavoro del bucato. Siamo a Milano e per una settimana una fila di signore si reca a osservare con meraviglia quel prodigio che arrivava dall’America, mentre la nonna di Calabresi ne spiega il funzionamento e vanta gli spazi di libertà conquistati. Anni dopo dirà al nipote che la lavatrice “ha messo fine a secoli di fatica delle donne”. Il giornalista ritrae in queste pagine una deliziosa modernità femminile: la nonna nel 1955 certo viveva nel benessere economico, ma non siamo in presenza di una ricca chiusa, svagata e fuori dal mondo. Lei aveva anche l’intelligenza e l’aspirazione alla libertà e al progresso tipiche della migliore borghesia: tutte cose che saranno parte del patrimonio culturale della stragrande maggioranza delle donne delle generazioni successive a quella a cui appartenne la mia estasiata vicina.
Ma la mia vicina e le altre abitanti del vicolo che festeggiavano il frigo hanno lo stesso comportamento, le stesse reazioni di quel raduno femminile a Milano: sono proiettate allegramente in avanti, non sono oscurantiste. Non è cosa da poco! Mia madre, come le sue amiche, gli spazi che man mano conquistava con lo sviluppo non poté utilizzarli per leggere i libri a cui non era usa, ma ugualmente comprese l’importanza delle innovazioni: in ogni caso, fu capace di immaginare un avvenire diverso per i figli e soprattutto per le figlie. E pure lei, quando per esempio ebbe ancora giovane la pensione per problemi di salute, acquistò maggiore autonomia all’interno del nucleo familiare e ne fu consapevole.
Allorché allattava ( pitturava ) le pareti di casa, non diceva banalmente che le rendeva celestine, ma “color del cielo”: qui c’è il suo incanto verso il mondo, la sua gioia di vivere ed il suo volgere lo sguardo oltre l’esistente.
La prosperità, non la miseria, aveva in mente quella società contadina che fu la nostra. Mia madre non approvava chi gigioneggiava con la sua cultura. Io conservo lo stesso sdegno con chi oggi si riempie la bocca di tradizioni, di nostalgia per il passato e fornisce di esso idilliche descrizioni. Non ci sono fasti da rievocare: in tanti sono scappati a gambe levate dalla povertà imperante.
Adoro tutto quanto renda l’esistenza meno complicata. E adoro ciò che mi concede di non lavorare in casa: sono solita dire che le mie più care amiche sono la lavatrice e la lavastoviglie. Veniti mu le viditi!
( Anzi, si nescemi accattu puru na machina chi mi lave la facce! )

© Margherita Faga